«Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei Giudei?».  Gesù rispose: “Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul mio conto?”.  Pilato rispose: “Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?”.  Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”. Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”.» Gv 18,33-37

 

Le letture del Vangelo della liturgia che ci hanno accompagnato fino a questo giorno, sono state per noi, non solo la storia di Gesù, ma come la storia che l’uomo percorre con Gesù, a partire dal momento in cui accoglie la Sua chiamata, Lo segue e si lascia condurre dalla convivenza con il Signore.

Domenica scorsa l’Evangelista ci ha detto - con un linguaggio specifico che è l’Apocalisse - che persino le più grandi potenze  che conosciamo non sono definitive, persino quello che consideriamo “divinità” è destinato al luogo che realmente gli spetta: la terra, dove «cadranno le stelle».

            Oggi celebriamo la verità sulla storia, la logica che c’è dietro gli eventi, la logica che vede il mondo così come Gesù lo vede. Sappiamo bene come le antiche teorie sul “caso” oggi siano superate, una volta che si sono dimostrate inconsistenti; bene, siccome tutto il cosmo possiede una logica, pur incomprensibile, anche la storia possiede una logica, cammina verso una direzione. Con il titolo di Re dell’universo, oggi celebriamo la rivelazione di questa logica, la quale si incarna e manifesta nella persona di Colui che sta al di sopra di qualunque ipotesi che l’uomo possa pronunciare sulla storia: Gesù verso il quale andranno a «convergere tutte le cose, tanto quelle del cielo come quelle della terra» (Ef. 1,10). Attraverso la scena che il Vangelo di oggi ci offre, potremo scoprire in Gesù qual è questa logica, quale la verità per la quale Lui visse, come leggiamo: «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità».

            Dal primo all’ultimo istante della sua vita, Gesù si interpreta come colui che deve svelare al mondo la verità sul mondo; che deve mostrare, apertamente, quello che disperatamente l’uomo ricerca col suo desiderio di vivere con coscienza e dignità. Il Signore sa che a questa rivelazione è direttamente legata la qualità di vita non solo dell’individuo, ma dell’umanità come un tutto. Di fatto, è quando qualcuno non comprende il significato della propria esistenza che commette i più grandi errori, che vive la più profonda delusione, che sperimenta la solitudine esistenziale. Non considerare un senso ultimo della storia personale e collettiva significa restare senza direzione; ora, senza un obiettivo definitivo, la vita di ciascuno resta in balia del mercato delle proposte più immediate, quelle che si offrono come soluzioni a basso costo. Ovviamente è questo il terreno più fertile  per chi ha bisogno di rendere le persone schiave, dipendenti. Basta togliere l’obiettivo ultimo, una logica di vita e tutto è facilmente controllabile. Basta dare a ciascuno la sensazione che sta realizzando qualcosa “comprando” idee, cose, immagini, infine, tutto quello che dà risultati e soddisfazione a breve termine. È un’antica tecnica politica, usata anche per l’allenamento dei cani: ricompensa in cambio di dipendenza e sottomissione, che sia più o meno consapevole.

            Ma Dio non ha fatto l’uomo schiavo, né per essere schiavo!

            La libertà, prima di essere “libertà di fare” è “libertà di essere” e quest’ultima è strettamente legata alla dignità della persona umana. Nessuno è libero finché non si scopre degno; sempre abbasserà lo sguardo, sempre starà elemosinando qualcosa, sempre penserà che le sue opinioni devono adeguarsi a quelle della massa… sempre sarà dipendente.

            Fin dalle prime pagine della Scrittura, l’uomo è chiamato a essere “signore” (“dominus” in latino, radice del verbo “dominare”); con queste parole Dio gli rivela la sua identità e la sua vocazione: «Dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni animale che striscia per terra» (Gen. 1,28). Spiega l’essenza dell’uomo, che è mostrare la sua dignità che si eleva su tutto ciò che fu creato, è questo che significa essere “signore” nel linguaggio della Scrittura. Così, Dio chiede all’uomo di non assoggettarsi, di non lasciarsi soggiogare, poiché l’alta dignità che ha ricevuto è parte essenziale e costitutiva della persona umana. L’uomo deve credere nella sua dignità, perché è questa che lo diversifica da ogni essere esistente, una volta che non è semplicemente “l’ultimo gradino di una scala biologica”. Da questa dignità decorre la sua vocazione che significa tre cose: sentire e lasciar trasparire in sé l’infinito che è alla radice della sua esistenza, perché questo infinito orienti i suoi atteggiamenti; usare adeguatamente i mezzi che la creazione offre per tale fine. Questo è l’uomo secondo il progetto di Dio.

            Oggi, davanti a Pilato, troviamo l’uomo come Dio lo aveva sognato: Gesù; è presentandoLo alla folla che il Procuratore romano afferma: «Ecco l’Uomo!» (Gv. 19,5). Ma chi è l’uomo che sta alla nostra presenza? Un quadro molto complesso ci si presenta, tuttavia, sono sicuro che Dio saprà ispirare il nostro spirito per comprendere questo momento della vita del Signore. Procediamo nella lettura.

            Immediatamente percepiamo due uomini posti uno di fronte all’altro; più che di due persone, si tratta di due mentalità che si confrontano sul terreno del senso dell’esistenza. Uno è schiavo, l’altro è libero. Uno è nella posizione di perdente, l’altro di chi ha la situazione in mano. Due mondi.

            Sappiamo che Pilato ha avuto problemi personali con l’imperatore e che il Proconsole – suo superiore diretto – non vedeva bene il suo modo di agire nei confronti dei giudei, per una serie di fatti che non è il caso qui ora di ricordare. Ovviamente gli mancava poco per perdere il posto e essere sostituito da un altro Procuratore, questo spiega la domanda diretta e immediata, senza preamboli: «Tu sei il re dei giudei?», un problema in più avrebbe potuto  significare la perdita della posizione. Un uomo che discute e interroga per paura di perdere è immagine dell’uomo che non cerca la verità con libertà e apertura, ma cerca la verità che gli interessa, la “sua” verità, per non perdere una posizione acquisita e mantenuta ad ogni costo. A Pilato interessava semplicemente la posizione politica di Gesù; non voleva avere davanti a sé un’altra potenziale rivolta dei Giudei. Pilato non aveva alcuna opinione su Gesù – nel dialogo usò le parole dei Giudei – tuttavia non comprendeva, la paura di perdere la sua posizione era molto grande e rendeva Pilato schiavo a tal punto che i propri farisei lo resero ostaggio della sua stessa paura : «Se tu lo liberi non sei amico di Cesare!» (Gv 19,12). L’uomo che sembrava avere il controllo della situazione, in verità, era un uomo controllato. Schiavo della sua paura, schiavo di perdere quello che era la conquista di tutta una vita e che avrebbe potuto terminare da un momento all’altro. È questo che succede quando gli obiettivi sono e corto raggio: si esauriscono in se stessi lasciando un vuoto profondo. Obiettivi infiniti sono infiniti, per questo sono sempre capaci di dare un impulso nuovo e inatteso all’esistenza.

            Alla domanda di Pilato, Gesù non rispose con un semplice “sì” o “no”; questo perché non è degno dell’uomo un Dio che dà risposte pronte; l’uomo è capace di molto di più. Così Gesù, prigioniero, paradossalmente stava dando a Pilato molto di più che una semplice risposta, stava dando la possibilità di essere libero; stava offrendogli la possibilità di riscoprire la sua dignità, la libertà di “essere”, molto più difficile della libertà di “fare” che lui già possedeva.

            Come sarebbe stato meglio, per Pilato, che tutto quello non stesse accadendo! Ma Gesù riesce a raggiungerci in qualunque circostanza; in qualunque condizione è capace di presentarsi, legato, come qualcuno che non ha paura di perdere, ricordandoci così cosa significa essere “signore”. Finché la paura domina l’uomo, questi sarà sempre schiavo e ci sarà sempre qualcuno disposto a offrire protezione, vantaggi, sicurezza. È il regno di questo mondo in cui la paura spinge verso le certezze a tutti i costi, verso il risultato immediato giacché non si conosce il domani, verso l’ambizione esagerata di lucro che dà una sensazione di stabilità…

            In quell’uomo legato, stava,  di fronte all’umanità, l’immagine di cosa significa confidare nell’assoluta bontà di Dio; stava la figura della libertà che non si piega ai vantaggi a breve scadenza, la supremazia sui mezzi che un certo mondo usa.

            La risposta di Gesù, tradotta frequentemente con «il mio regno non è di questo mondo» nasconde una interpretazione gnostica del  medio Evo mai accolta dall’interpretazione del Magistero; questa lettura significherebbe che esistono due mondi, uno a cui appartiene l’uomo con Pilato e un altro mondo a cui appartiene Gesù, insinuando così una vera divisione a discapito del “mondo” degli uomini. Il testo originale usa la preposizione “ek” che significa “da” nel senso di origine; per cui, la risposta, grosso modo, potrebbe suonare così: “il mio regno non viene - non si realizza – per gli stessi principi del mondo”. Il regno non viene, non avviene con il potere né con il controllo: è “dominio” in senso Biblico, è la sovranità dimostrata con il “dare” che non si assoggetta alla paura di perdere. È libertà, signoria capace di portare qualcuno a consegnarsi per amore e fiducia.

            Pilato non ha di che temere, Gesù non è venuto a togliere nulla a nessuno, le risposte di Gesù si pongono su piani diversi e questo spiazza Pilato: un re nemico si sa come combatterlo, ma se qualcuno si presenta come un Sovrano che non compete?

            Questa è la verità, per questa verità Gesù ha detto di essere venuto a condividere la nostra vita. È la verità, esattamente il contrario dell’immagine che il serpente aveva dato di Dio: un rivale dell’uomo, le cui indicazioni sono oppressive, lesive della libertà di “fare”. L’immagine che il demonio insinua è falsa, è la falsità nella quale l’uomo che ha paura è immerso e per questo è incapace di essere libero, di aderire: è un uomo che diffida della “buona intenzione” di Dio.

            È per questa verità che Gesù ha offerto la sua vita. Verso questa verità, come l’ha rivelata Gesù nella sua sovranità assoluta, andrà l’epilogo finale dell’esistenza umana, verso il mondo in cui quello che si perde, per amore, corrisponde a ciò che permane per sempre. Così, affinché l’uomo sappia sempre dove andare, Gesù ha anticipato nella sua vita l’epilogo finale dell’esistenza umana nel tempo. La ricapitolazione finale del mondo, avrà il senso che Gesù gli ha dato, quello che oggi ci ha suggerito.