«Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio
che sarà chiamato Emmanuele,
che significa Dio con noi. Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa». (Mt 1, 18-24)
L’attesa è stato il sentimento principale che le domeniche precedenti hanno sugge-rito per la nostra vita. Imparare ad attendere, abbiamo visto, non significa alienarsi dal mondo quotidiano, fatto di problemi, decisioni, contraddizioni. La speranza cristiana non si confonde mai con l’allettante astrazione. Nelle domeniche anteriori la liturgia ci ha presen-tato per prima la speranza di un popolo: una storia collettiva.
Israele, nonostante le pressioni culturali greche e in seguito romane, nonostante la mancanza di leaders spirituali, nonostante la decadenza religiosa trasformata in legalismo e ritualismo, continuava a credere in un Dio fedele alla parola data, poiché il suo popolo era di persone semplici, sincere, oneste anche se tra errori e contraddizioni. In seguito le letture hanno manifestato la speranza di un uomo, Giovanni Battista, che com¬prendeva il si-gnificato della sua esistenza a partire dal Messia: ogni suo gesto fu fatto avendo come prospettiva il compito di preparare il terreno sul quale il Messia avrebbe potuto incontrare un popolo ben disposto. Vedere la speranza realizzata in Gesù darebbe senso alla vita di chiunque.
Oggi, quasi in un susseguirsi di sentimenti e atteggiamenti, il Vangelo ci presenta la complessità di situazioni generate quando qualcuno si pone realmente a disposizione di Dio. A differenza di un generico messianismo che proietta l’uomo nel mondo astratto, o lo lascia dipendente dalla prospettiva di “qualcuno” che risolva i suoi problemi come per un atto di magia, la speranza cristiana abbraccia totalmente ed esige opzioni radicali. Essa implica il coinvolgimento totale, senza esimere la persona dalle sue uniche, libere e responsabili decisioni. La speranza, come atteggiamento che tende alla realizzazione di un futuro non co¬struito dall’uomo, ma ricevuto da Dio, restituisce a chiunque la posizione più consona da-vanti a Lui, quella posizione di cooperatore responsabile così magistralmente descritta nel libro della Genesi: Adamo, l’uomo è collaboratore e co-autore del giardino di Dio.
La storia delicatamente narrata e quella suggerita con discrezione dall’Evangelista ci pongono al centro della vita di una coppia, Maria e Giuseppe, che presero una decisione fondamentale nella loro vita: sostituire il culto di se stessi – il mito che ancor oggi ci affligge – con la centralità di Dio. Ben agli antipodi di qualsiasi coppia autosufficiente, di qualsiasi nucleo familiare che decide la propria storia prescindendo da Dio... differente dalla coppia chiamata Adamo ed Eva del primo libro della Bibbia.
Molto più che la descrizione di eventi, l’Evangelista c’indica gli atteggiamenti e la profondità del coinvolgimento con cui Dio compromette quelli che sono capaci di spostare il baricentro di se stessi e affidarsi al Signore della storia.
Il centro del racconto è Giuseppe. Probabilmente la fonte d’informazioni che l’evangelista Matteo ha a disposizione è la stessa famiglia di Giuseppe, altrimenti non gli sa¬rebbe stato possibile approssimarsi a questioni tanto delicate che non erano di dominio pubblico. Siamo di fronte a narrazioni che ci rivelano i sentimenti più intimi di Giuseppe e Maria, a decisioni davanti alle quali non esistono ragioni e sono incomprensibili a qualsiasi altra per¬sona che non sia la coppia che si ama, sopra ogni altra cosa. A noi compete solamente con¬templare le loro decisioni senza pretendere di comprenderle; vedere come è possibile ol¬trepassare qualsiasi giusta ragione quando il centro della propria vita non è più l’io, i “di¬ritti” ecc. ma il progetto incomprensibile di Dio.
Giuseppe è descritto come “uomo giusto”, cioè uomo di parola, che credeva nella pa-rola data da Dio e dalle persone. Stando così le cose, il “giusto” nella Scrittura è colui che vive una relazione corretta con Dio e con gli altri, è un uomo di fiducia. Ora lui era davanti al maggior dramma della sua vita: con quali criteri prendere decisioni? Incredibili conflitti senza dubbio agitavano il suo cuore. Uomo di parola, non poneva minimamente in dubbio la possibilità – la più ovvia per qualunque altra persona – che la sua Maria provasse meno amo-re per lui. D’altro canto i fatti parlavano da soli.
Questa difficile situazione e il dramma nel cuore di Giuseppe, ci dicono anche quanto delicata fu Maria, che non manifestò quello che aveva tanto profondamente sconvolto la sua vita, quasi a voler prevenire. Maria, non giustificandosi né prevenendosi da qualsiasi possibile reazione che legalmente l’avrebbe sottopo-sta alla pubblica derisione, coinvolgendo tutta la sua famiglia, i genitori, i parenti... rimise a Dio qualunque possibile soluzione, disposta a subirne tutte le conseguenze. “La serva che ha i suoi occhi fissi alla mano del suo padrone” sentimento così ben descritto nel salmo 122,2. Dio non lascia senza soccorso chi confida in Lui. Non risolve magicamente le difficoltà, esige decisione totale, vero e concreto amore, ma Egli viene incontro quando l’uomo dà tutto, veramente tutto quanto può. Maria e Giuseppe, entrambi soli e profondamente uniti. Non più ragioni; solamente una profonda fiducia nella parola data li rendeva capaci di superare lo stallo.
Profondi e silenziosi sguardi di amore costituivano il loro dialogo, nell’attesa che Dio mostrasse qualche segno; attesa che diveniva tanto più lunga quanto più avanzava la gravi¬danza. E Dio diede la sua risposta. Ancora una volta una risposta che non “cade dal cielo”. Giuseppe è invitato a trovare una risposta nella Scrittura stessa che aveva guidato la sua vita fino ad allora. E, in questa strana condizione dove la Parola parla all’uomo che abbandona la ragione (chiamata “sogno” nel linguaggio biblico) le parole “Giuseppe, figlio di Da¬vide” gli fecero venire alla mente ciò che da sempre conosceva: le parole che il profeta Natan aveva rivolto a Davide: «Io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò sta¬bile per sempre il trono del suo regno. Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio.» ( Sam 7, 12-14). Lui, Giuseppe, era quell’uomo; quel discendente di Davide dal quale sarebbe venuto il Salvatore.
Nel bel mezzo di una situazione che avrebbe potuto precipitare trasformandosi in un dramma per i due che tanto si amavano, improvvisamente Dio aveva indicato il giusto cammino, senza sostituirsi a nessuno, con la discrezione di sempre. Dio aveva dato la risposta al dramma di Giuseppe: “Tu gli darai il nome”. È come se gli dicesse: tu, uomo di parola, che credi nella parola, sarai testimone che anche Dio è fedele alla sua parola, così come Maria lo è stata con te e tu vuoi esserlo con lei.
Certamente Dio non lascia senza soluzione alcuna circostanza in cui manifestiamo la nostra autentica volontà di servirlo e di amarlo al di là di ogni ragione. Ma lo fa senza sovrapporsi e, quando troveremo le soluzioni, invece di aggrapparci alle più sottili ragioni, forse riuscissimo a fare come Giuseppe: “sognare”... e in questo “sogno” vedere nella Scrittura un riferimento per trovare la soluzione!
Dio ti benedica.
Padre Carlo